Raccontarsi: una storia, uno strumento educativo, anche in ambito ambientale

Articolo pubblicato sulla rivista trimestrale di cultura ambientale “AMBIENTE“.


Sono a tavola assieme ai miei nipoti di 7 e 11 anni. Sono da poco tornati da scuola e stiamo gustando lo squisito piatto di pasta che la nonna come ogni giorno ha cucinato per loro. L’indomani sarà il compleanno di Andrea, il più piccolo, e di suo zio, il più grande, e ci stiamo preparando per festeggiarli. Mi piacciono i compleanni. Tra tutte le ricorrenze è quella che mi piace di più; se si vuole bene ad una persona non si può non festeggiare il giorno della sua nascita. Chiacchierando dell’evento la nonna comincia a ricordare il giorno in cui suo figlio (lo zio di Andrea) è venuto al mondo. Narra di come si usava partorire un tempo, di quanto fossero particolari i lineamenti di quel bimbo appena nato, di quanto fosse minuscolo il suo naso, tanto da sembrarne privo e tanto da guadagnarsi l’appellativo di “senzanaso”. Così prende a raccontarci di come fosse stata sua sorella, nel tempo, ad assegnare un soprannome ad ogni nuovo bimbo arrivato in famiglia. E lei li ricorda tutti, quei soprannomi, nonostante le nascite siano state tante e la famiglia sia numerosa. Li nomina uno ad uno senza esitazioni, evocando immagini di bambini mai visti. Le storie, come i soprannomi, scorrono l’una dopo l’altra. La prima è lo spunto per raccontare la seconda, questa introduce la terza e così via di storia in storia, di ricordo in ricordo. Perché ogni ricordo è solo un piccolo pezzetto di quel grande puzzle familiare che non sarà mai finito fintanto che arriveranno nuovi bambini.

Tutti noi siamo fatti di storie. Ognuno è fatto dalle storie che ha sentito raccontare dai propri cari, le storie della propria famiglia e di ogni suo singolo componente. Sono loro, le storie, la nostra identità personale e familiare e sono ancora loro che, tutte assieme, vanno a costruire la nostra identità collettiva. E ognuno di noi influisce su queste identità setacciando i ricordi e scegliendo quali storie raccontare a chi verrà dopo. A volte le nostre storie non ci piacciono e scegliamo di buttarle via, in tutto o in parte, oppure di cambiarle, di migliorarle. O meglio, scegliamo di cambiare e migliorare noi stessi per avere storie migliori da raccontare. Io sono fatta delle storie di mia nonna che mi raccontava degli anni della guerra, del rifugio in una grotta non lontana da casa proprio sotto una colonia di pipistrelli, di come gli Americani, quando li trovarono, donarono loro cioccolata a volontà e di come, anche in un momento così difficile, i bambini sapessero cogliere la magia di quella irripetibile avventura. Sono fatta poi delle storie di mio padre in una Sicilia rurale e autentica, della vita in campagna, del sudore versato su quella terra brulla e difficile da lavorare, del rapporto puramente utilitaristico con le altre specie, dei giochi creati con fiori e piante, come il salto sulle capsule del cocomero asinino per farle esplodere e guardare i semi schizzare via lontano, e del viaggio verso il nord alla ricerca di un futuro migliore, lontano dalla vita contadina. Sono fatta un po’ anche della storia della famiglia di Andrea, grazie ai racconti di una nonna cresciuta in una Napoli antica e dimenticata. E poi, è chiaro, sono fatta della mia personale storia passata e di quella che sto cercando di scrivere oggi.

Fin dalla sua comparsa su questa terra la nostra specie si è posta il problema di cosa raccontare ai propri posteri e come farlo, consapevole dell’infinito potere educativo e immaginifico della narrazione. Le storie hanno fatto la storia dell’uomo e il loro racconto ha spinto in avanti la crescita e l’identità culturale dei popoli, dando ad ogni bambino di questa terra, per quanto piccolo, un passato dentro il quale affondare le proprie radici, il materiale culturale per poter strutturare se stesso e tutto quell’insieme di valori condivisi dal proprio gruppo sociale che ne orientano le scelte, gli atteggiamenti, i comportamenti; esse poi generano quel potere immaginifico che è alla base del progresso scientifico, tecnologico e culturale, perché come affermò John Dewey “ogni passo avanti della scienza è partito da un nuovo spunto dell’immaginazione”. Che fossero tramandate disegnandole sulla roccia, raccontandole attorno al fuoco o leggendole a letto prima di addormentarsi, poco importa. Esse legavano le generazioni l’una all’altra scrivendo la storia degli uomini, influenzando la visione del mondo e orientando le aspirazioni verso un dover essere che è frutto non solo delle storie vissute e ascoltate ma anche di quelle che ci si racconta ogni volta che si riflette su chi/come si vuole essere e su quale mondo si vuole costruire. La cultura stessa è il frutto delle storie che ci siamo raccontati, che abbiamo scelto e che abbiamo condiviso come gruppo sociale. Le storie poi hanno l’importante funzione sociale di garantire i propri diritti agli uomini, alle comunità, ai popoli; pensiamo a tutti gli uomini e le donne che ogni giorno affrontano il mare su imbarcazioni improvvisate rischiando la vita per inseguire un futuro migliore lontano da guerre, carestie e povertà: finché restano volti senza storie é facile non occuparsi di loro, ignorarli o considerarli un problema da risolvere, senza una storia non hanno un’identità e questo, infine, li priva della loro umanità. Ma quando invece veniamo in contatto con la loro storia intima e personale, con le motivazioni che li hanno spinti fino a qui, con i sentimenti che li animano, allora diveniamo immediatamente meno freddi, meno maldisposti nei loro confronti, più umani. Si genera empatia. Non a caso gli oppressori di tutti i tempi e di tutti i luoghi si sono preoccupati di privare gli oppressi della loro storia, ben sapendo che così facendo li si priva della loro umanità. E al nostro pianeta non è forse accaduto lo stesso? Finché nessuno si è preoccupato di raccontare la sua storia tutto è stato lecito, ogni violenza, ogni usurpazione.

In quest’ottica il racconto assume dunque un’importanza strategica di grande valore per tutti coloro che si occupano di educazione, ambientale compresa; ma in un paese che da questo punto di vista ha un passato ancora molto giovane e acerbo, quali racconti abbiamo da narrare noi educatori ambientali? In quale storia affondano le nostre radici e su quale materiale culturale sono costruiti i nostri valori? Una possibile risposta sta nella ricerca dei motivi più profondi che ci hanno condotto su questa strada, la nostra storia di formazione è il testimone da interrogare sulla scena dell’agire educativo. Cosa ci ha portato a divenire educatori ambientali, che ci ha fatto desiderare di esserlo? Perché vogliamo educare/educarci all’ambiente? Quali sono le esperienze, i vissuti che hanno indotto questa scelta? La mia storia personale ad esempio è fatta di lunghe passeggiate sulle rive di fiumi scroscianti e cristallini e sotto boschi ombrosi e freschi, della ricerca di felci e ciclamini o di girini e granchi di fiume, del dispiacere di vedere a volte luoghi magici e bellissimi deturpati dalla mano dell’uomo, dell’emozione di scoprire ogni volta un posto nuovo e del piacere di farlo con mia madre, del suo stesso amore per la natura e del suo impegno nell’utilizzare ogni sua domenica – unico giorno libero da un lavoro massacrante – nel dedicarsi interamente a me e nel farlo donandomi natura e libertà, nella capacità di improvvisare e vivere l’imprevisto e la sorpresa (spesso non programmavamo assolutamente dove andare, semplicemente montavamo in auto e andavamo dove la strada ci conduceva, magari inseguendo una cima o un paesino arroccato in lontananza). Quelle esperienze sono state, mutuando ancora il pensiero di Dewey, educative, ossia hanno vissuto fecondamente e creativamente nelle esperienze che sono seguite, mi hanno portato a viverle e riviverle ancora, ad approfondirle, hanno generato una riflessione sulle prospettive di significato che le hanno formate e guidate. “Come nessun uomo vive e muore per sé stesso, nessuna esperienza vive e muore per sé stessa. In completa indipendenza dal desiderio e dall’intenzione ogni esperienza continua a vivere nelle esperienze future”. Così il benessere provato in quell’epoca e i ricordi felici che ne sono scaturiti mi hanno fatto interrogare nel tempo sui benefici che traiamo dalla natura, sul rapporto con le altre specie, sulle mie responsabilità nella tutela dell’ambiente, sulla mia posizione e il mio essere parte del sistema, mi hanno fatto mettere in discussione la mia cultura di provenienza e i miei stessi atteggiamenti nei confronti dell’ambiente, hanno instillato in me il desiderio di essere protagonista e consapevole delle scelte che hanno un impatto su di esso e mi hanno portato da un lato ad assumere di volta in volta scelte all’insegna della sostenibilità, come l’utilizzare pannolini e dischetti lavabili o scegliere alimenti freschi e privi di imballaggi, e dall’altro al desiderio di condividere con altri lo stesso benessere permettendo loro di fare le stesse esperienze, impegnandomi per creare le condizioni per metterli nelle stesse esperienze, consapevole che “l’esperienza è il banco di prova di ogni teoria pedagogica ed è ciò che permette di educare ogni uomo alla responsabilità, alla partecipazione e alla soluzione dei problemi di tutti in una società fondata sull’integrazione, sulla comprensione di quell’evento che noi siamo e che, soprattutto, possiamo divenire”. Questo mio cammino, questa mia storia personale non solo fa di me quello che sono ma permette agli altri di riconoscere in me un impegno reale, non solo dichiarato, a favore dell’ambiente, di riscontrare un’autenticità in ciò che propongo, faccio e dico e di riflettere sul fatto che se qualcuno lo fa, tutti possono farlo. L’educatore ambientale dunque, oltre a promuovere esperienze educative nei propri interlocutori, può fare delle sue storie (e delle sue motivazioni) personali uno strumento educativo, una vera e propria strategia didattica in grado di accorciare le distanze tra operatore e interlocutori, rendendo il primo più autentico, più umano, più raggiungibile e mettendo i secondi nella condizione di riconoscere in lui un modello da seguire ed emulare e, soprattutto, di voler provare in prima persona le esperienze narrate. Raccontare, raccontarsi, portare sé stessi e il proprio cammino dentro la relazione con gli altri è il primo passo per superare un approccio nozionistico a favore dell’instaurarsi di una relazione più profonda dentro la quale essere testimoni di un modo diverso di vivere che sia in armonia con la natura e consapevole delle conseguenze delle proprie azioni come parte di un unico sistema. Per comprendere come le nostre storie possono influenzare le storie degli altri nel momento in cui entrano in contatto con noi e come esse possano essere usate consapevolmente come strumento didattico proviamo a fare un esempio: voglio parlare di mobilità sostenibile ed indurre i miei interlocutori (mettetevi per un attimo nei loro panni) a mettere in pratica comportamenti virtuosi per essere più sostenibili, come andare a scuola in bici piuttosto che in auto. Per farlo scelgo uno di questi due modi:

  1. Spiego il fenomeno dell’inquinamento atmosferico, definendo cause, effetti e possibilità di agire in prima persona, quindi informo su quanto ognuno può ridurre la propria impronta e consiglio di diminuire il proprio impatto su tale fenomeno usando la bicicletta al posto dell’auto tutte le volte che è possibile;
  2. Partendo da una mia esperienza personale racconto che un giorno, di ritorno da un weekend in montagna con la mia famiglia, ci siamo resi conto che l’aria in città era molto maleodorante, così mi sono informata sull’inquinamento atmosferico, sulle sue cause e i suoi effetti e sulla situazione nel mio centro abitato (spiegando ai miei interlocutori cosa ho scoperto). Da quel momento ho cominciato a riflettere quanto e come anche io e la mia famiglia incidessimo su quella situazione e ho deciso di fare qualcosa per ridurre la nostra impronta. Così ho deciso di usare meno l’auto, ho rispolverato la mia bicicletta e quella di mio figlio, abbiamo trascorso un pomeriggio assieme per andare ad acquistare i caschetti durante il quale ci siamo molto divertiti e da quel giorno andiamo sempre a scuola e a lavoro in bici. Il tragitto è sempre molto piacevole perché non siamo più costretti a stare nel traffico, facciamo sempre strade diverse e questo ci ha permesso di scoprire dettagli della nostra città che prima, passando con l’auto, non avevamo mai notato, poi sul viale alberato poco distante dalla scuola, che è poco trafficato, facciamo sempre una piccola gara per sentire il piacere del vento sul viso e farci una risata prima di salutarci. Spesso poi ci fermiamo al bar per prenderci un ultimo momento assieme prima di dedicarci ai nostri impegni, tanto non abbiamo più il problema di non trovare parcheggio e, non dovendo più rimanere imbottigliati nel traffico non rischiamo di fare tardi. Questo tempo che prima era privo di significato, un “tempo corridoio” tra casa e scuola che al massimo ricordavamo negativamente per lo stress di fare tardi, da quando usiamo la bici è diventato un tempo piacevole e divertente, un tempo di qualità, un tempo da ricordare. Ora neppure ci pensiamo più che abbiamo cominciato a farlo per inquinare meno perché in realtà lo facciamo perché ci fa star bene.

Quale di questi due approcci avete trovato più interessante? Quale avete seguito con più piacere, da quale vi siete sentiti più coinvolti e soprattutto quale dei due ha suscitato in voi il desiderio di provare la stessa esperienza? Chi si occupa di educazione ha letto e riletto sui manuali di pedagogia che nel farsi di un processo educativo lo sforzo di connettersi con il vissuto dell’educando è fondamentale per promuovere un apprendimento significativo, ma molto meno spesso ha letto che altrettanto fondamentale è portare nella relazione educativa anche il vissuto dall’educatore. Le storie che hanno fatto l’educatore infatti, quelle che lo hanno portato ad essere chi è e lo hanno condotto alla scelta di portare gli altri sulla strada della sostenibilità sono il motore più potente per generare nell’interlocutore il desiderio di fare altrettanto perché restituiscono la sua umanità, creano empatia, suscitano interesse e vicinanza e rendono l’obiettivo più appetibile e, soprattutto, più raggiungibile agli occhi di chi deve mettersi in cammino. L’educazione è un processo caldo. L’uomo è un animale sociale che impara dagli altri prendendo esempio, ossia traendo insegnamento da ciò che ritiene possa dargli benessere migliorando la propria vita, la propria persona, la propria situazione economica ecc. L’osservazione degli altri è alla base di questo processo ed è per questo che possiamo educare all’ambiente solo se siamo in grado di dare un esempio concreto, di incarnare ciò che diciamo, di essere testimonianza viva e vivida. Questa tensione a migliorare è il motore che spinge in avanti l’umanità e che si manifesta potentemente e precocemente in ogni persona, in ogni bambino intento ad osservare e imitare gli adulti di riferimento ed è proprio da questo che dobbiamo partire per educare all’ambiente, per migliorare il rapporto delle persone col pianeta, favorendo esperienze che suscitino curiosità, rafforzino l’iniziativa e facciano nascere desideri e propositi sufficientemente forti da rigenerarsi nel futuro conducendo l’individuo ad una crescita continua. Le nostre storie personali, che hanno indotto noi per primi a cambiare rotta e a migliorare il nostro comportamento nei confronti dell’ambiente, possono quindi da un lato suggerirci in quali tipi di esperienze mettere i nostri interlocutori e dall’altro veicolare con forza il nostro messaggio, diventando strumento didattico e motore del processo educativo. Dunque la prerogativa tutta umana di raccontare storie volte a creare identità culturale, che ha formato uomini e donne di ogni tempo, luogo e società, può essere oggi riscoperta in una chiave tutta ambientale in grado di raccontare i nuovi uomini e le nuove culture, quelle in equilibrio con un mondo in cui l’uomo non è più dominatore ma maglia della grande rete del Sistema e, soprattutto, quelle le cui storie raccontano della cura e dell’amore per il proprio pianeta. Se il racconto è alla base della costruzione della nostra identità personale e collettiva allora dobbiamo assolutamente narrare questa nuova storia.

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