Ieri mattina al Centro di Educazione Ambientale Oasi WWF Lago di Conza (AV) ho avuto l’opportunità di lavorare con i ragazzi del Centro Rifugiati Politici dell’Associazione Irpinia Onlus 2000 di Conza della Campania. Un’esperienza che difficilmente dimenticherò e che, se possibile, ha radicato ancora di più in me la convinzione di un’accoglienza possibile e necessaria per tutti coloro che ci stanno chiedendo aiuto. I ragazzi erano una ventina in tutto e tutti giovanissimi, l’età media era di circa 25 anni. Alcuni erano in Italia da appena un paio di mesi e dal principio la comunicazione non è stata proprio semplicissima. Nonostante questo il lavoro manuale e le ore trascorse assieme hanno creato un clima particolarmente piacevole, come accade sempre in Oasi. I ragazzi hanno avuto l’opportunità di prendere parte attivamente al progetto di conservazione della fauna “Una casa sul lago”, che l’Oasi porta avanti con successo da circa un paio d’anni. Obiettivo del progetto è fornire luoghi di nidificazione alla rarissima Passera Lagia, un animale coloniale che si vede solo raramente e che nidifica in pochissimi luoghi della Campania. Tale obiettivo viene perseguito mediante la costruzione di cassette nido coloniali che vengono poi impiantate in svariati punti dell’Oasi, Centro Visite compreso. L’installazione di numerose cassette è stata sin da subito colta come opportunità da numerose altre specie di uccelli cavicoli come Passera d’Italia e Cinciallegra e finalmente quest’anno anche da una coppia di Passere lagie, che ha portato con successo all’involo la propria nidiata all’interno di una delle nostre cassette. Dopo la visita guidata alle aree faunistiche della Cicogna bianca e delle Testuggini, al bosco igrofilo e al prato naturale, i ragazzi sono stati fatti accomodare in sala proiezioni, dove sono state spiegate loro le finalità del progetto e le specie alle quali esso è destinato. Una prima cassetta nido è stata costruita dal personale dell’Oasi a scopo dimostrativo, quindi i partecipanti sono stati invitati a prendere il materiale e a costruirne altre in prima persona. Se la visita guidata ha creato qualche problema in termini di comunicazione il laboratorio è risultato invece estremamente coinvolgente, registrando l’entusiasmo e la partecipazione di tutti. I ragazzi erano delle nazionalità più disparate (Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Congo ecc.) ed è stato molto bello osservare mezzo mondo seduto al lavoro attorno a un unico tavolo. Un momento particolarmente emozionante è stato quando uno di loro, terminata la propria cassetta nido, ha preso la matita e l’ha firmata con il proprio nome e la propria provenienza. Dopo poco ogni cassetta nido riportava il nome e la provenienza del proprio costruttore. Nomi che celano storie drammatiche ma anche sogni e speranze inarrestabili, nomi portati da ragazzi appena ventenni che in una famiglia italiana sarebbero considerati poco più che dei bambini ancora in piena fase di educazione e che invece stanno addosso a uomini, piccoli uomini con un’anima fin troppo carica di cicatrici. Nomi che celano storie di morte e distruzione. Molti di loro non hanno ormai più nulla e nessuno nel proprio paese. I bombardamenti gli hanno portato via casa, genitori e spesso anche fratelli. Ragazzi che a soli 22 anni hanno già affrontato un viaggio, un salto nel vuoto, sono stati rimpatriati forzatamente e hanno trovato la forza e il coraggio di ripartire ancora e che oggi sono qui da noi, ad esprimere sogni e speranze per una vita migliore lontana dalle bombe e dalla morte, sogni e speranze che spetterebbero loro di diritto. Mousi, Kawan, Ali Aboul, Kosar sono solo alcuni di questi nomi, alcune di queste storie, e io sono solo una persona che ha avuto la fortuna di poterle ascoltare. Cosa ha a che fare l’educazione ambientale con tutto questo? Molto, moltissimo. Se tutti noi fossimo “educati all’ambiente” sapremmo che ogni nostro gesto quotidiano (mangiare, bere, lavarci, scrivere, parlare al cellulare ecc.) richiede l’impiego di risorse naturali più o meno (sempre meno) abbondanti sul nostro pianeta. Sul nostro pianeta, quasi mai nel nostro paese. Ed è proprio il prelievo e lo sfruttamento di queste risorse la causa principale dei conflitti perpetuati nel mondo. Il petrolio è solo uno degli esempi più banali ma parliamo anche di acqua, minerali, suolo ecc. Quasi sempre il copione è lo stesso: le grandi multinazionali occidentali fanno accordi per pochi spiccioli con i governi dei paesi a sud del mondo, i paesi in cui sono concentrate la maggior parte delle risorse naturali, per la loro estrazione, promettendo in cambio soldi e lavoro. Questi paesi sono privi di una benché minima legge di tutela ambientale e spesso sono molto arretrati anche in fatto di diritti umani, e questo le multinazionali lo sanno bene. Il risultato è che l’estrazione delle risorse si basa sullo sfruttamento di veri e propri schiavi, gente che si lascerebbe uccidere per un pezzo di pane e che non ha voce per esprimere i propri diritti, gente che neanche sa di avere dei diritti, spesso donne e bambini. Si estrae finché la terra non ha assolutamente più nulla da dare, quindi si va via, in un altro paese, lasciando dietro di se povertà e disastri ambientali di portata sovra regionale. Quello che sta accadendo da anni nel Delta del Niger ad opera di ENI (Italiana) e Shell (Anglo-Olandese), è solo uno degli infiniti esempi che si potrebbero fare. La ricchezza di pochi a scapito della povertà di molti produce rivolte, repressioni e guerre. Le stesse guerre dalle quali scappano Mousi, Kawan, Ali Aboul e Kosar. Se tutti noi fossimo “educati all’ambiente” sapremmo che molte delle “loro” guerre sono determinate dal “nostro” spreco di risorse. Se tutti noi fossimo “educati all’ambiente” molto del razzismo più ignorante neanche esisterebbe. Essere educati all’ambiente non vuol dire soltanto saper fare la raccolta differenziata o sapere che bisogna chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti. Essere educati all’ambiente vuol dire essere consapevoli che il pianeta sul quale viviamo è un piccolo pianeta che appartiene a tutti noi, a ogni singolo individuo esistente insieme a noi su questa terra, altre specie comprese, vuol dire sapere che i confini geografici sono forzature tutte umane che nulla hanno a che fare con le risorse della terra, che se una risorsa si trova in Africa non vuol dire che appartenga agli Africani, ma neanche che appartenga a noi che abbiamo i soldi per sfruttarla. Essere educati all’ambiente vuol dire capire che l’unità di misura, il sistema da considerare, è la terra, non il nostro paese, che se produco troppa anidride carbonica in Italia le conseguenze si ripercuoteranno in tutto il mondo, che se estinguo una specie in Cina avrò interrotto una catena alimentare che certamente non è confinata al territorio cinese. Essere educati all’ambiente vuol dire in ultima analisi capire che la difesa dell’ambiente e della biodiversità vanno di pari passo con la difesa dei diritti umani e il mantenimento della pace. D’altra parte tutto ciò era già chiaro negli anni ’70, quando la Conferenza di Tbilisi indetta dall’UNESCO e il Programma di Sviluppo Sostenibile stilato dall’ONU cominciavano a porre l’attenzione sul difficile conflitto tra sviluppo, diritti umani e conservazione dell’ambiente e a dire al mondo che esso sarebbe stato risolto solo attraverso lo strumento dell’educazione ambientale. Ma questo purtroppo il sistema educativo non lo ha recepito e la generale incultura e ignoranza ambientale vanno di pari passo con i disvalori e l’ignoranza razzista. Come dicevo oggi avuto la fortuna di ascoltare le storie di Mousi, Kawan, Ali Aboul e Kosar perché loro hanno avuto la fortuna di uscire vivi dai bombardamenti della guerra in Iraq. Tra due mesi il periodo di accoglienza al Centro finirà e loro dovranno andare via, da soli, senza appoggi e senza opportunità. Tra due mesi Mousi, Kawan, Ali Aboul e Kosar, ai quali lo stato di rifugiato politico non è stato ancora riconosciuto ufficialmente, poco più che ventenni smetteranno definitivamente di essere dei ragazzi e si trasformeranno in uomini alle prese con la lotta per la sopravvivenza. Io, da parte mia, continuerò a sostenere con tutte le mie forze il dovere dell’accoglienza e il valore della fratellanza e, quando mi riuscirà, cercherò con tutte le mie forze di insegnare questi valori a quanti vorranno leggermi e ascoltarmi. Ringrazio infinitamente l’Associazione Irpinia Onlus 2000 per il lavoro che svolge in prima linea accanto a questi ragazzi e per aver scelto l’Oasi come luogo di tutela dell’ambiente e dei diritti umani, dandomi l’opportunità di fare quest’esperienza di grande formazione personale, per me prima ancora che per loro. E già, perché l’educazione ambientale è così: chi la fa impara di più di chi la riceve. Chi dona un seme all’altro ne riceve in cambio un frutto.
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