Tra calanchi, borghi e grillai. Un viaggio geologico tra Basilicata e Puglia.

“il paesaggio diventa musica
si fa canoro
l’aria respira se stessa
 fino alle gole
dei calanchi”
Franco Brusa

Mi era capitato in passato, durante i miei viaggi, di imbattermi in paesaggi decisamente non comuni e dalle caratteristiche decisamente originali: brulli, profondamente incisi, quasi lunari. Li ammiravo rapita dal finestrino mentre il procedere rapido del treno su cui mi trovavo se li portava via troppo velocemente, lasciandomi con quell’insaziabile desiderio di vederli meglio, più da vicino, per più tempo e con l’urgenza di capire quale località stessi attraversando. All’epoca non v’erano internet ne’ smartphone e tutto ciò che potevo fare per geolocalizzarli era leggere il nome della prima stazione di passaggio, a volte lontana km e km. La mia mente andava collezionando così nomi di località sconosciute ancorché affascinanti che aggiungevo man mano a quella infinita lista di paesaggi che, prima o poi, avrei voluto attraversare a piedi, lentamente. A 16 anni conoscevo un’infinità di toponimi sperduti in giro per l’Italia. Non avevo la minima idea di come fossero fatti quei paesi, non li avevo mai visti, ma ne conoscevo nomi e paesaggi. Talvolta essi saltavano fuori da un libro di scuola o da una discussione tra persone vicine e io dicevo “ah si, sta in Emilia” o in Toscana o chissà dove. I miei amici mi chiedevano come facessi ogni volta a saperlo. Col tempo avevo costruito una sorta di mappa interiore fatta di paesaggi e colori etichettati con quei nomi che mi avrebbero permesso di localizzarli e ritrovarli. È sempre stato così, i paesaggi naturali mi sono sempre entrati dentro. Ma quei paesaggi lunari di cui parlavo mi avevano lasciato una curiosità più pungente perché, profondamente diversi da tutti gli altri, intuivo appartenere ad un’altra categoria, una categoria che in Campania non era rappresentata.

Fu una una lezione di geologia della Prof.ssa Simone a riportarmi inaspettatamente al ricordo di quel paesaggio perduto. La descrizione di quelle formazioni geologiche di cui la Simone andava parlando cominciò a formare immagini precise nelle mia mente, immagini che io avevo visto anni prima, dal finestrino di un treno troppo veloce. Sapevo esattamente di cosa stava parlando. La mia mappa interiore si dispiegò davanti ai miei occhi, risalivo l’Italia più velocemente del treno, superavo quella lunga serie di gallerie infinite intervallate da paesaggi di roccia e boschi e poi, poco dopo, quel paesaggio lunare. Mi trovavo verso la fine dell’Appennino Tosco-Emiliano, poco prima di Bologna, e quelli, ora lo sapevo, erano i calanchi. Fu così che scoprì anche che, per vederli da vicino, non era necessario andare così lontano.

Forme geologiche rare e poco rappresentate, i calanchi si trovano lungo il margine orientale dell’Appennino soltanto in poche regioni tra cui la Basilicata. Ed è qui che siamo andati per assaporare la loro aspra bellezza.

Il nostro itinerario

TURSI

Partiti da Napoli, in poco più di 3 ore abbiamo raggiunto Tursi, un piccolo gioiello in provincia di Matera, nel cuore dell’Appennino Lucano, un paese di pietra con una storia ricca ed importante e paesaggi incantevoli. Qui si sono avvicendati popoli e culture a incominciare dall’invasione dei Saraceni, dei Bizantini e dei Normanni che contribuirono allo sviluppo della città, e poi Svevi ed Angioini che la resero simile a come la vediamo oggi. Il suo rione più antico è il Rabatana, sorto intorno al castello tra il V e il VI secolo, letteralmente circondato

da profondi e inaccessibili burroni, quelli che costituiscono il fantastico mondo delle “Jaramme” di Albino Pierro, poeta nativo di qui che sfiorò il premio nobel per la letteratura nel 1988. Inerpicandosi su per il bel borgo di pietra si raggiunge finalmente il quartiere originale. Qui si possono ripercorrere le stradine tra le case del primo nucleo abitativo, alcune ben ristrutturate ma, per la maggior parte, ormai poco più che ruderi, con i bellissimi portali ancora irti a loro protezione. Immersa nel rione la chiesa di Santa Maria Maddalena, la cui facciata sobria e pulita non attira in un primo momento lo sguardo ma al cui interno si celano alcuni affreschi del 500 perfettamente conservati, raffiguranti la storia della Vergine Maria.

Dopo aver passeggiato tra i vicoli e respirato il caratteristico odore del borgo in pietra, il Rabatana finisce in un’ampio spiazzo (raggiungibile in auto) lasciato vuoto dal castello scomparso. L’arrivo è reso meraviglioso dal paesaggio che lo circonda, l’antico nucleo abitativo è difeso infatti da tre crepacci di oltre cento metri di altezza di origine franosa: il “fosso della Palmara” (a Iaramma) a nord, il “fosso di San Francesco”, u fòss d’San Francisch a est e il “fosso della Cattedrale”, u fòss da Catr’dé a ovest. Il territorio è ricoperto di boschi cresciuti sulla sommità della sabbia anticamente sommersa ma sui versanti esposti è possibile riconoscerne la natura sedimentaria. Formatesi nel Cenozoico antico, le rocce marnose rappresentano una massa sedimentaria estremamente friabile costituita da argille e calcari. Sulla nostra destra un’ampia vallata si apre verso Pisticci, mentre dall’altro lato un piccolo promontorio chiude lo sguardo ma permette di salire ancora più in alto. Sulla sua sommità c’è un belvedere che permette di abbracciare con lo sguardo l’intero borgo di Tursi mentre al suo interno un sistema di grotte permette di osservare le piccole nicchie che, scavate nella roccia morbida, venivano utilizzate per l’allevamento di piccioni e conigli. Tursi vale la visita non soltanto per il suo bel borgo di pietra arroccato su un promontorio ma anche per l’ospitalità dei suoi abitanti, che come tutti i Lucani rendono speciale anche la più breve delle permanenze. Un caffè, un ultimo sguardo e siamo pronti a ripartire, i calanchi ci aspettano.

CRACO

La nostra seconda tappa è Craco, un borgo fantasma a mezza strada tra i monti e il mare immerso nei calanchi. Il borgo, in effetti, sembra innalzarsi proprio da loro.

Le prime tracce delle origini di Craco sono alcune tombe che risalgono all’VIII secolo a.C., le quali sembrano suggerire una prima colonizzazione da parte dei coloni greci provenienti da Metaponto che risalivano le colline per sfuggire alla malaria.

Nel X secolo Craco fu abitato da monaci italo-bizantini che iniziarono a sviluppare l’agricoltura, all’origine dell’antico nome “Graculum”, ovvero “piccolo campo arato”. Nel 1963 il centro storico, interessato da fenomeni franosi iniziati probabilmente con i lavori infrastrutturali intrapresi dal comune per la realizzazione del sistema fognario, iniziò a subire uno spopolamento che culminò con il terremoto del 1980, rendendolo un caratteristico paese fantasma.

Arrivare a Craco è già di per se un viaggio emozionante. La valle sottostante, dominata dai calanchi e e da profondi canyon incisi nel substrato argilloso, rivela un paesaggio incredibile le cui meraviglie naturali si intervallano dolcemente con uliveti e campagne. Ma l’effetto sorpresa deve ancora venire: Craco infatti, ben nascosta tra le colline, si rivela solo dopo aver percorso quasi tutte le curve della stradina ben asfaltata che si inerpica fino a quota 390 m slm.

Lo sguardo vaga rapito tra i calanchi a terra e il volo dei nibbi reali e dei grillai nel cielo ma ecco che, superata l’ennesima curva, ci si ritrova improvvisamente davanti a quel che resta del borgo che svetta tra i calanchi. Lo spettacolo è impareggiabile e una piccola piazzola a bordo strada ci consente di fermarci un attimo per ammirare rapiti la torre normanna che svetta sullo sperone roccioso su cui è arrampicato il paese.

Attualmente è possibile visitare Craco solo con le visite guidate offerte sul posto, acquistabili presso l’info Point posto poco prima dell’accesso al borgo nei pressi di un vecchio monastero diruto. Il comune infatti, intenzionato a realizzare un piano di recupero del borgo, ha istituito due percorsi di visita guidata obbligata lungo itinerari messi in sicurezza, che permettono di percorrere il corso principale del paese fino a giungere a quello che resta della vecchia piazza principale, sprofondata in seguito alla frana, o di addentrarsi nel nucleo della città fantasma fino alla torre normanna, dove la nidificazione dei grillai è già di per se uno spettacolo. La visita dura circa 1,15 ore e non presenta particolari difficoltà, a patto che si riescano a percorrere scale e viottoli con superficie spesso accidentata e che non faccia eccessivamente caldo.

Da tempo ambito set cinematografico per film del calibro de “La passione di Cristo” di Mel Gibson e “Cristo si è fermato a Eboli” di Francesco Rosi, nel 2010 il borgo è entrato nella lista dei monumenti da salvaguardare redatta dalla World Monuments Fund. Nel silenzio più assoluto infatti, dove puoi sentire la voce del vento, il tempo sembra fermarsi e Craco assurge a luogo dell’anima.

I CALANCHI DI PISTICCI

Dopo la visita al borgo fantasma ripartiamo alla volta dei calanchi. Ne abbiamo visti a perdita d’occhio lungo la strada che ci ha condotti nel cuore dell’appenino Lucano e salendo lentamente verso Craco, ma questa volta vogliamo proprio entrarci dentro, osservarli da vicino, toccarli con le nostre mani, perciò ci dirigiamo verso Pisticci, dove una piccola insegna turistica lungo la Statale 176 recita “Calanchi”. La seguiamo e ci

ritroviamo ben presto a percorrere un bellissimo sterrato punteggiato da calanchi, uliveti e spettacolari fioriture di erba viperina, papaveri e ranuncoli montani. Ogni singolo metro della strada ci fa venire voglia di fermarci ma decidiamo di seguirla fino al “Teatro dei Calanchi”, un anfiteatro naturale dominato dal bianco borgo di Pisticci. I calanchi abbracciano parte dell’anfiteatro estendendosi per km e km alle sue spalle, mentre di fronte grandi canyon, pascoli e uliveti parlano di un antico legame tra uomo e natura. Scendiamo dall’auto e ci avviciniamo increduli, possiamo finalmente toccare con mano quella roccia screpolata e fessurata dall’acqua su cui la vegetazione, tutt’altro che arrendevole, si abbarbica tenace creando cupole verdi su aridi pinnacoli rocciosi.

Ma come si formano?

I calanchi nascono dall’erosione secolare della roccia argillosa da parte dell’acqua. I sedimenti su cui si sono sviluppati si sono formati durante il Pleistocene, tra circa 1,5 e 0,6 milioni di anni fa, in un mare poco profondo di cui conservano ancora oggi un’enorme ricchezza e varietà di resti fossili (molluschi, foraminiferi, coccolitoforidi, polline, resti vegetali) che ci raccontano della biodiversità che viveva in questo paleo-mare.

Condizioni necessarie per la loro formazione, oltre alla presenza di rocce argillose, sono il sole, la pioggia e, a volte, l’uomo. Infatti, nelle argille dei versanti esposti a sud e denudati della loro originaria copertura forestale, l’intenso irraggiamento solare dei mesi estivi provoca la formazione di fessure che aprono la strada all’azione della pioggia. Questa, scavando sempre più in profondità, modella imponenti apparati erosivi, con forme diverse in funzione della percentuale di sabbia presente nell’argilla: “lame di coltello”, pinnacoli, creste, cupole e un vasto campionario di impluvi di vario ordine.

Al pari dei fenomeni geologici, fauna e flora di questi luoghi sono spettacolari. Al suolo, sulle pareti e sulle creste incessantemente rimodellate dei versanti calanchivi,  lungo le colate di fango continuamente sottoposte a consunzione, la vita vegetale si impone caparbiamente. Ed ecco allora, come ci racconta il botanico Gianfranco Pirone sul suo sito, che “una delle piante più comuni dei calanchi, la graminacea Agropiro acuto (Thinopyrum acutum), a volte assieme ai cespugli dell’Atriplice alimo (Atriplex halimus) si abbarbica alle pareti dei calanchi con gli efficaci apparati ipogei, superando le più severe fasi erosive.” Piante che sono veri e propri esperti della colonizzazione vegetale, pionieri dotati di strategie e adattamenti incredibili per abitare questi luoghi così inospitali e le cui fioriture, soprattutto in primavera, regalano colori incredibili che ravvivano e tingono questi brulli paesaggi rocciosi.

Ma mentre noi siamo intenti a osservare solchi e piante in terra, Nibbi reali e Grillai sorvolano il cielo a pochi metri dalle nostre teste, pattugliando le zone di caccia in cerca di prede e dominando dall’alto un paesaggio ben più ricco di vita di quanto non si possa immaginare.

MATERA, IL NIDO DEL GRILLAIO

E proprio sulle ali dei grillai, dopo aver assorbito più possibile di questo luogo così speciale, voliamo a Matera per assistere alla nidificazione di questi piccoli rapaci dalle abitudini coloniali, così abbondanti in Basilicata ma del tutto assenti in Campania, proprio come i calanchi.

Matera infatti l’avevamo già visitata in passato e nulla potremmo aggiungere a quello che ormai tutti sanno di questo luogo unico al mondo, ma questa volta siamo qui per assistere alla nidificazione di questo piccolo rapace migratore che, meno intollerante di altri rapaci alla presenza umana, ritorna in massa ogni primavera per nidificare tra i sassi. Simile nell’aspetto al più comune Gheppio, il Grillaio ha un areale di nidificazione estremamente più ridotto, limitato ad alcune aree del meridione d’Italia tra cui Basilicata, Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria. Vederli tra i sassi mentre costruiscono il nido, si accoppiano o baruffano, perfettamente a loro agio tra le migliaia di turisti che animano il borgo, è uno spettacolo incredibile, così come è incredibile il legame che i Materani hanno sviluppato con questa specie ormai simbolo dei sassi, come si evince dai nomi di negozi, ristoranti e anche del bellissimo appartamento in cui trascorreremo la notte: il nido del grillaio. Ma i grillai non sono solo tra i sassi. Ogni giorno questi animali a priorità di conservazione a livello europeo si disperdono nelle campagne circostanti alla ricerca delle loro prede preferite, gli ortotteri, accompagnandoci per km e km in questo breve ma intenso viaggio on the road.

In autunno, dopo aver portato all’involo i propri piccoli, lasciati i cieli italiani i Grillai ripartiranno per l’africa sub-sahariana compiendo un viaggio lunghissimo che in alcuni casi potrà spingersi fino al Capo di Buona Speranza. Noi, invece, trascorsa la notte Materana, dobbiamo ripartire subito, ma non prima di aver consumato un’abbondante colazione presso una delle bellissime pasticcerie dei sassi.

ALTAMURA

Ultima tappa prima di tornare a casa è Altamura, un borgo ad appena 25 minuti di auto da Matera ma ormai già in territorio pugliese. Per appassionati di dinosauri e preistoria come noi, una tappa obbligata; è qui infatti che sono avvenuti due dei più importanti ritrovamenti paleontologici di tutta Europa: lo scheletro di un uomo di Neanderthal perfettamente conservato e uno dei più grandi giacimenti di impronte di dinosauri che si conosca .

Geologicamente differente dalla bassa provincia di Matera, quello di Altamura presenta un substrato calcareo con notevoli fenomeni carsici disseminati lungo tutta l’area del parco dell’Alta Murgia. Nel 1993, dopo svariati tentativi ed una campagna esplorativa durata più di due anni, gli speleologi Lorenzo Di Liso, Marco Milillo e Walter Scaramuzzi del Club Alpino Italiano di Bari, invitati a scendere in una delle numerose grotte presenti nella zona dal Centro Altamurano Ricerche Speleologiche (C.A.R.S.), riuscirono finalmente a raggiungerne la parte terminale, dove si imbatterono in una scoperta straordinaria: le ossa di un uomo perfettamente conservate dalle concrezioni calcaree. Studi successivi permisero di datare i reperti ad un periodo vicino ai 150.000 anni fa, consentendo di collocare l’uomo tra i Neanderthal più antichi. L’Uomo di Altamura era probabilmente un maschio adulto di 160-165 centimetri di altezza caduto accidentalmente nell’inghiottitoio carsico che dava origine alla grotta di Lamalunga. Le fratture e le ferite riportate gli impedirono di uscire dalla grotta, dove le sue ossa vennero letteralmente inglobate nelle concrezioni calcaree e dove rimane a tutt’oggi conservato, ad appena 8 metri di profondità, insieme a centinaia di altre ossa di animali primitivi. Per le sue caratteristiche morfologiche, la grotta di Lamalunga non può essere resa fruibile e per poter osservare e scoprire qualcosa in più sull’uomo di Altamura bisogna recarsi presso il centro visite di Lamalunga, nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia, dove alcuni video e l’esposizione di numerosi reperti naturali permettono di conoscerne storia e caratteristiche, o presso il Museo Archeologico Nazionale di Altamura, dove è presente una sua ricostruzione.

Sebbene la grotta di Lamalunga non sia visitabile, a pochissima distanza dal Centro Visite é possibile raggiungere un’altra straordinaria manifestazione geologica: il pulo di Altamura, la più grande dolina carsica dell’alta Murgia, formatasi per effetto dell’azione erosiva dell’acqua

in una roccia calcarea fortemente fratturata. Il perimetro, misurato sull’orlo della dolina, ha uno sviluppo lineare di circa 1800 m mentre il diametro più lungo è di poco superiore ai 500 metri, il dislivello oscilla invece tra i 70 e i 75 metri. All’interno del pulo sono presenti numerose grotte, in parte visitabili. In prossimità del Belvedere che consente di abbracciare l’intera dolina con lo sguardo e al quale è possibile arrivare in auto, un grande pannello illustra i numerosi sentieri che é possibile percorrere per raggiungere le grotte e fare escursioni a mezza costa all’interno della dolina.

Ma le meraviglie di questo territorio non sono finite. Ad appena qualche km di distanza questo stesso territorio conserva un’altro sito di incredibile importanza: la cava dei dinosauri. Rinvenute in località Pontrelli, a pochi chilometri dal centro urbano di Altamura, oltre 20000 impronte ben conservate di 200 esemplari di dinosauri, organizzate in vere e proprie piste lasciate circa 85 mln di anni fa da dinosauri erbivori afferenti ad almeno 5 specie di media-piccola grandezza, costituiscono oggi il più importante giacimento italiano se non europeo, sia dal punto di vista paleobiogrografico che da quello direttamente icnologico. A seguito di un sopralluogo scientifico in Cava, Umberto Nicosia, paleontologo dell’Università La Sapienza di Roma ed esperto in icnologia, nel 1999 istituì una nuova icnospecie (un’entità zoologica individuata solo sulla base di impronte): l’Apulosauripus federicianus.

Il giacimento di cava Pontrelli è oggi al centro di un grande intervento di recupero e valorizzazione ed è visitabile solo durante le aperture straordinarie predisposte dal comune nel periodo estivo.

Torniamo a casa, ma…

Il nostro viaggio é durato appena un weekend ma ci lascia carichi di meraviglie e di nuove scoperte in un territorio antico e bellissimo in cui paesaggi insoliti e incredibili catturano lo sguardo ad ogni angolo. Ritorniamo a casa percorrendo la Strada Statale della Valle del Sinni. Ed é già voglia di tornare per vedere di più.

E se siete troppo lontani dalla Basilicata…

Calanchi fantastici e dove trovarli

In Emilia nel Parco Regionale dei Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa;

In Toscana nel Parco Naturale della Val d’Orcia e nelle crete senesi ma anche nella Maremma Pisana su cui sorge Volterra;

In Lazio presso la valle dei calanchi dominata da Civita di Bagnoregio, la città che muore;

In Abruzzo nella Riserva Naturale Regionale dei Calanchi di Atri;

Nelle Marche, dove anche il borgo di Castignano si affaccia su una valle di calanchi, tra la valle del Tedino e quella del Tronto;

In Calabria, dove sono presenti i bellissimi calanchi bianchi di Palizzi;

In Sicilia presso Centuripe e Caltagirone.


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