Il valore della testimonianza

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Brano tratto da Il coraggio di educare. Il valore della testimonianza” di Michele Corsi

“L’identificazione (cioè l’imitazione interpretata) è, a partire da Freud sino agli odierni analisti, la struttura portante, la benzina (buona e/o cattiva), l’elemento di processo di quel prodotto che è o sarà poi ognuno di noi. L’identificazione soprattutto con i genitori (o con chi li ha pressoché interamente sostituiti) per la fondamentalità delle prime fasi di vita nell’avventura esistenziale di chiunque e, successivamente, con gli altri adulti (e non) significativi, perché così riconosciuti dalla persona presa in esame: nonni, insegnanti, amici. L’identificazione con le parole e i gesti degli educatori o di quanti vengono individuati in questo ruolo (magari pure a torto), con i silenzi e i «rumori» di costoro, con la loro vita vissuta e praticata, con il loro dire e il loro testimoniare. Da qui i pensieri, i giudizi e i pregiudizi, i sentimenti e le emozioni degli educandi, i permessi e i divieti interiori, le opzioni libere o bloccate, il «piano di vita» di chi è o si fa minore per scelta o per età rispetto a chi educa, il «copione» di ciascuno (per Berne) e la conquista non agevole dell’autonomia esistenziale. E, su tutto, l’atmosfera che la testimonianza dei grandi (o di quelli che sono stati ritenuti tali) produce e determina. Particolarmente in famiglia, quando i figli sono neonati o molto piccoli: un anno, due anni, tre anni, sei anni ecc. Perché è in virtù di quest’assimilazione-identificazione-testimonianza percepita e vissuta, incamerata e via via rivisitata, che ognuno incontra poi gli altri ambienti e le altre persone, le altre testimonianze, e vi si rapporta. E continua a crescere, auspicabilmente felice. Talora, troppe volte, spesso, i gesti e i comportamenti, più che le parole, educano (o diseducano), segnano, scavano, creano scorie o sedimenti desolati e desolanti o strutturano, nell’intimo, spazi infiniti di luce e di speranza, di gioia. Di energia positiva. La parola forma, ma di tanto in tanto non viene neppure ascoltata o recepita, viene gettata via lontano o accolta al contrario, se la forza del linguaggio non verbale, talvolta la sua violenza o la sua ambiguità, la contraddittorietà degli sguardi e del corpo educante, degli abbracci e delle carezze trasmessi o impediti, vanno in altra direzione. Gli altri ci osservano. I figli ci guardano. Gli allievi ci squadrano. E se non esiste coerenza tra il dire e il fare, la parola rimane sullo sfondo, perde di significato e assume anzi i connotati della menzogna, del ricatto, della impossibile praticabilità. Campeggiano così, nell’intreccio tra avvenimenti e percezione degli stessi, solo le condotte e gli atteggiamenti degli educatori. Ed è a quelli che gli educandi rivolgono maggiore attenzione, si ispirano e li seguono. La migliore testimonianza è, allora, la coerenza (o la sua ricerca) tra la parola e il gesto. (…) L’educazione è un sistema di scelte, la testimonianza è la forma più immediata dell’educazione ed è lo stile di chi, volendo incontrare e accogliere davvero l’altro e gli altri, si fa attento a se stesso, si osserva e si controlla, si rende differente a seconda del diverso con cui si rapporta, decide l’uso che vuol fare dell’unica vita di cui dispone e le tracce che vuole imprimere o lasciare in colui con il quale si relaziona. Ora, ognuno rifletta su sé e sui suoi educandi, ritorni con la mente e col cuore ai comportamenti adottati e alle parole che utilizza, se in questo suo impegno ha effettuato delle scelte o è convinto di aver operato delle rinunce, alla testimonianza che ha offerto e che rappresenta nel medio e lungo periodo, quotidianamente. E se qualcosa non va, può sempre ridecidere. E magari avere l’umiltà (che è il coraggio dei forti, di quelli veri, e non dei sedicenti e nevroticamente presunti tali) di chiedere «aiuto». Di accettare di mettersi in discussione e di intraprendere un cammino rieducativo.


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