L’impatto antropico e lo stato del pianeta, pillole dal Manuale di ecologia, sostenibilità ed educazione ambientale

“L’impatto antropico e lo stato del pianeta”, tratto dal Manuale di ecologia, sostenibilità ed educazione ambientale, di Aurelio Angelini e Piergiorgio Pizzuto

“Su scala globale assistiamo ad un aumento di 76 milioni di persone all’anno, che in termini di percentuale equivale ad un tasso di crescita dell’1,3%6. Le Nazioni Unite prevedono entro il 2050 un aumento di circa 2,5 miliardi di individui, la popolazione mondiale raggiungerebbe così il formidabile numero di 9 miliardi. L’aumento demografico comporta maggiori consumi su scala globale, soprattutto se di pari passo si innalza anche il tasso di consumo procapite. Tutto ciò fa aumentare il prelievo di risorse dai sistemi naturali al fine di soddisfare gli accresciuti bisogni. Un altro trend particolarmente preoccupante è l’aumento vertiginoso della popolazione urbana. Nel 2007 il numero di persone che vivono in città ha superato per la prima volta nella storia quello degli individui residenti in campagna. Ciò ha ovviamente delle potenziali conseguenze devastanti sul piano della qualità della vita urbana, scarseggeranno le già limitate risorse. Se solo pensiamo a quante capitali del mondo abbiano problemi per gli approvvigionamenti idrici o energetici, ci si rende conto della portata del problema. Meno della metà dei residenti dei centri urbani di Africa, Asia e America Latina hanno accesso domestico all’acqua potabile e meno di un terzo gode di sistemi fognari. In generale la crescita della popolazione determina un aumento della domanda di servizi e prodotti a livello mondiale.

L’agricoltura

La pressante crescita della domanda di beni alimentari ha determinato negli ultimi decenni del secolo scorso un aumento progressivo dell’estensione dei suoli coltivati. Nel 1961 l’area agricola globale raggiungeva un’estensione di 46 milioni di km quadrati, nel 2002 sono stati superati i 50 milioni di km quadrati. La produttività agricola, grazie alle tecniche industriali intensive introdotte negli anni ’60, ha permesso di triplicare la disponibilità di cibo superando la crescita della popolazione. Dal 1950 al 1975 la produzione di cereali è cresciuta con tasso medio del 3,3%, più elevato quasi di due punti rispetto al tasso di crescita demografico. La produzione agricola mondiale è assolutamente in grado di coprire i bisogni alimentari dell’umanità. Secondo Donella e Dennis Meadows, “il totale dei cereali prodotti nel mondo nell’anno 2000 basterebbe per nutrire, a livello di sussistenza, otto miliardi di persone, purché fosse distribuito equamente, non fosse utilizzato come mangime per animali, non andasse perduto a causa dei parassiti e non si guastasse nel tempo fra il raccolto e il consumo”. Ma l’aumento di produzione dovuto al diffondersi dell’agricoltura industrializzata intensiva non ha per nulla debellato la piaga della fame nel mondo: sono circa 9 milioni gli individui che muoiono annualmente per cause connesse alla fame, 25.000 al giorno. A fronte dell’aumento della produzione, purtroppo la qualità dei suoli è di molto diminuita e con essa la disponibilità procapite di terra e di acqua. Nel 1961 la disponibilità di terreno arabile era di 0,32 ettari per persona, nel 1997 è scesa a 0,21 ettari per persona. Se continuano gli attuali trend nel 2030 sarà di appena 0,16 ettari per persona. Fertilizzanti chimici, pesticidi e antiparassitari ed erosione del suolo sono tra i maggiori responsabili del degrado dei suoli di tutto il mondo. Il 26% della superficie mondiale (circa 35 milioni di km quadrati) presenta un livello molto alto di degrado. L’allevamento intensivo di migliaia di animali in allevamenti industriali ha fatto abbassare il prezzo delle carni, permettendo a fasce più ampie di popolazione di mangiare ogni giorno hamburger, bistecche e petti di pollo. Ma il prezzo che la società paga per avere in cambio carne economica è alto: perdita di biodiversità nelle razze animali e malattie che superano le barriere di specie e che colpiscono gli esseri umani. Basti pensare alla Bse e alla più recente aviaria. A questi prezzi andrebbe aggiunto il degrado dei suoli sopra illustrato. Un’altra insidiosissima minaccia per l’agricoltura mondiale è costituita dai cambiamenti climatici. È stato infatti stimato che secondo gli attuali trend entro i prossimi 50 anni i raccolti di cereali nelle zone tropicali potrebbero ridursi addirittura del 30%. Ancora secondo i Meadows, “l’odierna produzione di alimenti potrebbe essere sufficiente per tutti. E sarebbe possibile produrre altri alimenti ancora. Lo si potrebbe fare con molto meno inquinamento, meno terra e meno energia fossile e restituendo milioni di ettari alla natura o alla produzione di fibre, foraggio o energia. Lo si potrebbe fare in modo che gli agricoltori, che hanno il merito di nutrire il mondo, fossero ricompensati adeguatamente. Finora però è mancata la volontà politica di percorrere questa strada”.

L’energia e il clima

Tra il 1990 e il 2001 l’utilizzo di energia per 1000 dollari di Pil è diminuito del 3,5% a livello globale. Tale dato trova giustificazione nel progresso raggiunto nel campo delle tecnologie, rese sempre più efficienti sia per quanto concerne la produzione da combustibili fossili, che in relazione al consumo industriale, domestico e dei trasporti. A fronte di questa riduzione nell’utilizzo di energia in relazione al Pil, il consumo energetico globale ha segnato un aumento enorme: il 60% in più rispetto al 1973 (dato del 2002). L’aumento dei consumi comunque non ha interessato la popolazione mondiale in modo uniforme: il consumo pro capite nei paesi sviluppati è dieci volte superiore rispetto a quanto si registra nei paesi in via di sviluppo. La percentuale di energia prodotta grazie ai combustibili fossili ammonta all’80%, dal 1973 è diminuita soltanto del 6%. Le risorse petrolifere rimaste potrebbero durare altri 50-80 anni se i tassi di utilizzo si mantenessero fissi ai livelli del 2000. Il gas naturale si manterrebbe disponibile per altri 160-310 anni. Ma se i tassi di utilizzo dovessero crescere come generalmente avviene e come è avvenuto in passato con una media a partire dal 1970 del 2,8% annuo, il gas naturale durerebbe soltanto 75 anni. In atmosfera la concentrazione di biossido di carbonio è passata da circa 2,7 parti per milione (ppm) del 1750 a 3,7 ppm del 2000. Le emissioni di carbonio a livello globale hanno seguito un trend simile ai consumi energetici: dal 1973 al 2002 si assiste ad un aumento complessivo del 55%. La temperatura a livello del suolo segna una crescita di 0,6 gradi dal 1970 al 2002. Secondo l’International Pannel on Climate Change (Ipcc) nell’arco di questo secolo a causa dell’aumento della temperatura globale il livello dei mari salirà tra i 9 cm e gli 88 cm. Le conseguenze di un tale evento sarebbero disastrose per l’intera popolazione della Terra per la prevedibile crisi economica planetaria che ne seguirebbe, ma 100 milioni di persone ne sarebbero direttamente colpite, vivendo a meno di 88 cm dal livello del mare. Le previsioni dell’Ipcc riguardo l’aumento della temperatura indicano che entro la fine del secolo si dovrebbe registrare una crescita che potrebbe variare da 2 a 5 gradi C. Gli studi statistici dell’Agenzia Internazionale per l’Energia proiettati al 2030 indicano in un aumento del 60% l’andamento della domanda di energia su scala globale. I combustibili fossili copriranno l’85% di tale richiesta. Contestualmente le emissioni di anidride carbonica cresceranno del 60%. La quota di energia prodotta da fonti rinnovabili rimarrà bassa e ben lontana dal 12% fissato come obiettivo strategico a Johannesburg, raggiungendo un modesto 6%. Tale incremento sarà per gran parte dovuto al maggiore impiego di energia eolica e di biomassa. È stato stimato che gli Usa potrebbero utilizzare la metà dell’energia che attualmente consumano se migliorassero l’efficienza di gestione con le tecnologie attualmente disponibili. “Ciò porterebbe gli Stati Uniti agli attuali livelli di efficienza dell’Europa Occidentale, e ridurrebbe la dipendenza mondiale dal petrolio del 14%, dal carbone del 14% e dal gas del 15%. Progressi analoghi o maggiori in materia di efficienza sono possibili nell’Europa Orientale e nel mondo meno industrializzato”. Per fortuna L’uso di fonti energetiche rinnovabili si sta diffondendo sempre più grazie all’abbassamento dei costi di produzione. Attualmente il fotovoltaico e l’eolico stanno raggiungendo prezzi concorrenziali rispetto alle produzioni energetiche da combustibili fossili. Il costo dell’energia elettrica fotovoltaica è passato dai 120 dollari per watt del 1970 ai 3,5 dollari per watt del 2000. Oggi è possibile installare un impianto fotovoltaico per la produzione di 3 Kw con un investimento di circa 20.000 euro, che viene ammortizzato grazie ai risparmi sul consumo di energia elettrica convenzionale nell’arco di 8-12 anni. Anche l’energia eolica ha registrato una grande crescita. Dal 1997 al 2002 la produzione di energia eolica si è quadruplicata raggiungendo i 31.000 megawatt, la capacità produttiva di più di 30 reattori nucleari.32 Il costo di produzione dell’energia eolica è oggi inferiore al fotovoltaico.

L’acqua

La disponibilità di acqua dolce per le popolazioni del mondo attualmente non è scontata. Oltre 30 paesi, soprattutto africani e mediorientali, sono scesi al di sotto del parametro di scarsità di acqua dolce rinnovabile (1000 metri cubi pro capite). L’accesso insufficiente all’acqua non solo è la causa principale della perdita dei mezzi di sussistenza, ma spesso e volentieri è fonte di tensioni e conflitti che possono addirittura caratterizzare le tese relazioni di intere nazioni. Si pensi per esempio alla rivalità e ai contrasti causati dalle dispute sull’accesso all’acqua tra Siria e Turchia, tra Pakistan e India, tra Egitto e Etiopia. Sono in molti a paventare un futuro di guerre per il cosiddetto “oro blu”. Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca Mondiale, nel 1995 ha sostenuto che nel prossimo secolo le guerre saranno combattute per l’acqua. I bacini internazionali su cui ricadono due o più paesi coprono il 45,3% delle terre emerse, e sono abitati da circa il 40% della popolazione mondiale. 145 paesi presentano una parte del loro territorio che ricade in un bacino internazionale e 33 sono quasi completamente compresi in tali bacini. Questi dati dimostrano quanto sia reale il rischio di conflitti per l’acqua, se non vengono attuate politiche di cooperazione miranti ad una gestione razionale e partecipata. La collaborazione tra le nazioni su questo tema è resa obbligatoria dal fatto che i bacini travalicano i confini nazionali. Inoltre in un bacino idrografico tutto è connesso: la qualità e la quantità dell’acqua dipende dalla gestione dell’intero territorio che lo costituisce. Una fonte di inquinamento che si trova al di fuori dei confini nazionali può gravemente colpire la capacità di una nazione di soddisfare la propria domanda interna. I rischi legati alla gestione dell’acqua sono ancora più ampi. Sul piano ecologico ambientale, bisogna considerare che l’acqua svolge la funzione di “motore” dei cicli biogeochimici, in quanto trasporta molti elementi chimici. L’acqua garantisce continui scambi di materia tra la litosfera, l’atmosfera e la biosfera, in altre parole connette suolo, aria, flora e fauna. Degradare la rete idrica di un ecosistema significa comprometterne gravemente il funzionamento. Il Segretario Generale dell’Onu, ha inserito l’acqua tra le cinque priorità indicate in occasione del vertice di Johannesburg37. Il rapporto dell’Unep Geo 2000 sottolinea che la scarsità della risorsa idrica è divenuta un’emergenza globale, in quanto il “ciclo dell’acqua sembra incapace di adattarsi alla domanda crescente dei prossimi decenni”. I dati riportati nel rapporto dell’Unesco, World Water Development Report, presentano una situazione davvero agghiacciante:

• Intorno alla metà del secolo da 2 a 7 miliardi di persone dovranno fronteggiare scarsità di acqua, dovuta alla crescita demografica ed alla conseguente richiesta di cibo;

• La mortalità causata da problemi sanitari connessi alla qualità delle acque nel 2000 è stata pari ad oltre 2 milioni e 200 mila esseri umani. Per la maggior parte dei quali, bambini al di sotto dei 5 anni di età;

• Allo stato attuale 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’offerta d’acqua e 2,4 miliardi di individui non usufruisce di servizi sanitari connessi alla depurazione delle acque;

• L’11% della popolazione globale controlla l’84% della ricchezza prodotta e consuma l’88% dell’acqua;

“già oggi la domanda complessiva di acqua procede più velocemente rispetto alla crescita della popolazione. Se le tendenze attuali continueranno, sulla terra due persone su tre soffriranno di carenze idriche da moderate a gravi entro poco più di due decenni a partire da adesso”. Questo rischio può comunque essere evitato se vengono intraprese una serie di scelte di gestione orientate alla riduzione dell’uso e degli sprechi ed all’efficienza di gestione. Come fanno ben notare Donella e Dennis Meadows e Jorgen Randers, “la sostenibilità dell’acqua non è possibile senza sostenibilità climatica, che significa sostenibilità energetica. L’umanità è alle prese con un sistema unitario, ampio e interconnesso”.

La biodiversità

L’uomo deve la propria sopravvivenza e il proprio benessere ai servizi che naturalmente vengono forniti dagli ecosistemi. I benefici che i sistemi naturali producono spontaneamente sono talmente importanti per la vita sulla terra che Eugene e Howard Odum sono giunti a definire gli ecosistemi “life–support systems” (sistemi che sostengono la vita). I sistemi naturali infatti sono in grado di autogenerarsi, autorinnovarsi, autosostenersi, autoregolarsi. Grazie all’energia proveniente dal Sole e utilizzando gli elementi chimici fondamentali garantiscono la produzione primaria di materia organica che permette agli organismi di vivere ed evolversi. Fotosintesi e chemiosintesi sono i processi mediante i quali i sistemi naturali riescono a trarre dal mondo abiotico le risorse necessarie alla vita. Senza di essi non sarebbe possibile la formazione dei suoli, la regolazione delle componenti che costituiscono l’atmosfera, il ciclo dell’acqua e dei fondamentali elementi chimici e la stessa evoluzione biologica, che è alla base della ricchezza di forme di vita sulla Terra. I sistemi naturali devono la propria forza in termini di capacità di resilienza alla ricchezza di forme di vita di cui sono costituiti. L’abbondanza di forme di vita sulla Terra, frutto di miliardi di anni di evoluzione biologica, viene definita diversità biologica o biodiversità. È proprio dalla diversità biologica che dipende la capacità dei sistemi naturali di fornire quei servizi che sorreggono anche la vita del genere umano. Il concetto di diversità biologica può essere applicato a tre differenti livelli:

1. specie

2. geni

3. comunità e ecosistemi

Ad ognuno di questi livelli la diversità gioca un ruolo fondamentale e differente:

1. la biodiversità a livello delle specie offre sostanziali e diretti servizi all’umanità. La diversità specifica garantisce infatti all’uomo la possibilità di cibarsi, di curarsi e di ottenere altre risorse naturali per soddisfare altri suoi bisogni come vestirsi, scaldarsi, ripararsi.

2. La diversità genetica gioca un ruolo vitale all’interno di ogni singola specie, ne assicura la capacità di mantenimento e di resistenza. Una specie con un’elevata diversità genetica mostrerà una elevata vitalità produttiva ed una grande capacità di resistere sia alle malattie che ai mutamenti ambientali. L’uomo sfrutta la diversità intraspecifica selezionando le varietà e le razze che meglio rispondono alle proprie esigenze.

3. La diversità a livello di comunità è garanzia di un buon funzionamento degli ecosistemi. Più un ecosistema è ricco di comunità biologiche differenti più sarà in grado di mantenersi in vita nel caso di perturbazioni ambientali. Lo stesso “metabolismo” ecosistemico è agevolato dalla presenza di numerose differenti comunità. È la caratteristica fondamentale degli ecosistemi più maturi in cui il grado di integrazione tra le varie comunità è massimo, così come il livello di produzione, utilizzo e di “smaltimento” delle risorse materiali ed energetiche. In un’ottica antropocentrica la diversità in termini di comunità e di ecosistemi assicura alla società umana molti servizi di controllo e di regolazione, come il mantenimento della qualità dell’aria, dell’acqua, la stabilità climatica, la difesa dalle piene e dai processi erosivi.

La Convenzione sulla biodiversità biologica definisce ecosistema “un complesso dinamico di comunità di piante, animali e microrganismi e il loro ambiente non vivente, che interagiscono come un’unità funzionale”. Se si danneggia anche solo un elemento di tale unità, si colpisce l’intero complesso dinamico, che può o non può essere in grado di opporsi allo stress subito, a seconda dell’entità del danno e dalla capacità di resilienza dell’ecosistema. Alla luce di queste osservazioni estremamente sintetiche si capisce bene quanto la biodiversità sia la risorsa naturale più importante del pianeta. È il “cuore” stesso della vita. Il processo evolutivo è basato su un adattamento reciproco organismi/ambiente. Bisogna liberarsi dalla riduttiva concezione secondo la quale gli organismi si devono adattare all’ambiente. Oggi la visione dell’evoluzione è molto più complessa e conferisce centralità alla relazione adattativa reciproca tra ambiente ed organismi. L’evoluzione diviene coevoluzione. Scrive a proposito Lovelock: “l’evoluzione degli organismi è così strettamente accoppiata all’evoluzione del loro ambiente che insieme costituiscono un unico processo evolutivo”. Mentre nella visione classica dell’evoluzione l’elemento considerato più importante come motore dell’evoluzione biologica è la competizione, la lotta per la sopravvivenza per vincere la forza selettiva della natura (selezione naturale), ora, alla luce delle nuove ricerche, assume centralità l’interrelazione. Secondo le ricerche di Lynn Margulis, i processi fondamentali dell’evoluzione biologica sono le mutazioni genetiche, gli scambi genetici e la cooperazione. La selezione naturale non viene affrontata solamente con la competizione e la lotta reciproca, ma anche e soprattutto con la cooperazione, la mutua dipendenza, la simbiosi. Le ricerche sul microcosmo conducono la Margulis ad affernare che “la vita non prese il sopravvento del globo con la lotta, ma istituendo interrelazioni”. Oggi il tasso di estinzione determinato dall’impatto antropico è addirittura 1000 volte superiore al tasso naturale di estinzione. tra le cause antropiche di perdita della biodiversità gli scienziati della conservazione mettono al primo posto la distruzione degli habitat naturali e la loro frammentazione. Tra le altre cause vengono indicate l’introduzione di specie invasive, l’inquinamento, l’aumento demografico della popolazione mondiale, e l’ipersfruttamento. La più recente “Lista Rossa” mostra che nel 2006 il totale delle specie minacciate ha raggiunto la cifra di 16.118, equivalente pressappoco all’1% del totale delle specie descritte (1.562.663). I taxa più colpiti sembrano essere i mammiferi con il 20%, gli anfibi con il 31%, gli uccelli con il 12%, le gimnosperme con il 31%, i pesci con il 4% e i rettili con il 4%. Il numero di specie minacciate aumenta costantemente. Secondo le conclusioni del Millenium Ecosystem Assessment la notevole perdita di biodiversità a cui stiamo assistendo è dovuta al crescente prelievo di risorse naturali. Voluto dall’Onu in vista del vertice di Johannesburg, il rapporto riassume le proprie analisi in 4 fondamentali punti:

1. Negli ultimi 50 anni, l’uomo ha modificato gli ecosistemi più rapidamente ed estensivamente rispetto ad ogni altro periodo della storia dell’uomo. Ciò è dovuto in gran parte alla crescente domanda di cibo, acqua potabile, legno, fibre e combustibili. Il risultato è una sostanziale ed in parte irreversibile perdita di diversità della vita sulla terra.

2. Tali modifiche agli ecosistemi hanno contribuito ad un sostanziale guadagno in termini di benessere e sviluppo economico, ma tali guadagni sono stati raggiunti a costi crescenti sotto la forma di degrado di molti servizi forniti dall’ecosistema, rischi crescenti che tali modifiche aumentino la probabilità di cambi non lineari negli ecosistemi (inclusa l’accelerazione, o l’improvviso aggravarsi di modifiche potenzialmente irreversibili), e l’esasperazione della povertà per determinate popolazioni. Tali problemi, se non adeguatamente affrontati, diminuiranno sostanzialmente i benefici che le future generazioni potranno ottenere dagli ecosistemi.

3. Il degrado degli ecosistemi potrebbe crescere significativamente durante la prima metà di questo secolo ed è una barriera al raggiungimento degli obiettivi della Dichiarazione del Millennio.

4. La sfida per invertire il processo di degrado degli ecosistemi riuscendo a soddisfare la crescente domanda di servizi può essere parzialmente raccolta, ma comporta mutamenti significativi nelle politiche, istituzioni e pratiche, che al momento non si scorgono. Molte opzioni esistono per conservare o migliorare specifici servizi degli ecosistemi in modo da ridurre i trade-off negativi o consentire sinergie con altri servizi ecosistemici.

Metalli e minerali

Tra le risorse non rinnovabili un peso considerevole nell’economia mondiale è ricoperto dai minerali e dai metalli. Come nel caso dei combustibili fossili siamo di fronte a risorse che non si rinnovano nel tempo. A differenza dell’acqua, degli alimenti, del legno, della biodiversità e della radiazione solare, i minerali ed i metalli non hanno la capacità di ricostituirsi ed una volta estratti ed utilizzati non sono più disponibili. Riciclare è possibile ma solo fino ad un certo punto. La materia risponde al II principio della termodinamica e più viene utilizzata più si degrada. Bisogna liberarsi dall’idea che il riciclaggio possa da solo risolvere definitivamente il problema della limitatezza delle riserve di materiali perchè esso riguarda soltanto lo stadio finale del ciclo di vita di un prodotto. “Secondo una valutazione approssimativa, a ogni tonnellata di rifiuti prodotti dal consumatore finale corrispondono 5 tonnellate di rifiuti nello stadio di fabbricazione e 20 tonnellate là dove avviene l’iniziale processo di estrazione della risorsa. Dal 1950 al 2000 il consumo mondiale di rame, piombo, zinco, stagno e nichel si è più che quadruplicato. La crescita dell’uso di questi metalli è dovuta all’aumento esponenziale della produzione industriale. Come nel caso di altre risorse, l’utilizzo dei minerali e dei metalli, non è uniforme sul pianeta. Secondo i Meadows se tutti i nove miliardi di individui che nel 2050 abiteranno il pianeta consumassero metalli agli stessi tassi di un americano medio alla fine del XX secolo, la produzione globale di alluminio dovrebbe crescere di un fattore 9, quella di rame di un fattore 8 e quella d’acciaio di un fattore 5. Le stime della durata di ferro e di alluminio ai tassi di produzione della media degli anni 1975-99 indicano rispettivamente in 65 ed in 81 anni il periodo per cui il totale delle riserve identificate sarà sufficiente. Per il rame tale stima scende a 22 anni, per il piombo ad appena 17 anni, per lo stagno a 28 anni, per l’argento a soli 15 anni, e per lo zinco a 20 anni63. Secondo l’International Institute for Environment and Development (IIED) al tasso di crescita del 2% annuo le riserve possono alimentare la produzione per un arco di tempo variabile tra i 15 e gli 80 anni. Se le sorgenti (sources) di minerali e metalli pongono il problema della loro limitatezza, allo stesso modo sorge la questione della limitatezza dei pozzi (sink) che dovrebbero provvedere allo smaltimento dei rifiuti relativi alla loro produzione. L’entità del problema è enorme se solo si pensa alla zaino ecologico che ogni produzione porta con sé. I rifiuti inerti generati dall’estrazione dei minerali ammontano a venti volte il peso dei materiali prodotti.”

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