Allarme: cresce l’analfabetismo motorio

Lo avreste mai creduto possibile? Insomma, quando si parla di analfabetismo si pensa immediatamente all’incapacità di leggere, scrivere e far di conto e del resto è più o meno questo il significato del termine riportato dai vocabolari, dunque avreste mai pensato che possa esistere un analfabetismo di tipo motorio? Ebbene sì, esiste ed è in rapida crescita soprattutto in casa nostra, in Italia. Il nostro paese è il più sedentario d’Europa e, neanche a dirlo, il problema riguarda soprattutto i bambini. Come si legge in questo articolo apparso recentemente sul “Il quotidiano.net” e ripreso poi da numerose testate on line  “nel 2017 nella fascia d’età tra i 6 e i 10 anni i bambini che non praticavano sport e attività fisica erano il 18,8%. Aumenta chi fa solo qualche attività fisica: il 15,3% del 2017 contro il 10,8 del 2015. Se si prende in considerazione la fascia di età 3 – 5 anni i dati sono ancora più preoccupanti: la percentuale di chi non pratica sport e attività fisica arriva al 48,8%. Il risultato è che in tutto il mondo 38,3 milioni di bambini sotto i 5 anni sono in sovrappeso, 8 milioni in piú rispetto ai 30,1 milioni del 2000. In Italia la percentuale di bambini e adolescenti obesi è aumentata di quasi 3 volte nel 2016 rispetto al 1975. Molti bambini non sanno nemmeno più fare una capriola.”

Purtroppo però nell’articolo si legge tra le cause di una situazione così preoccupante solo la scarsa partecipazione da parte dei bambini alle attività sportive organizzate e sembra che l’unico pericolo che essi corrono sia quello dell’obesità (con tutti i problemi che essa comporta), una visione troppo ridotta di una problematica che ha radici ben più profonde e che si ripercuote, ancor prima che sulla condizione fisica, su quella psicologica. Se è vero infatti che troppi bimbi non fanno sport e che mancano campetti e oratori, alla base del moderno analfabetismo motorio c’è peró soprattutto la scomparsa delle attività libere in natura ed esso è nella maggior parte dei casi legato ad un analfabetismo emotivo ben più grave nelle sue conseguenze personali e sociali. Fino a pochi anni fa infatti la concezione dell’andare in palestra neppure esisteva ma praticamente tutti i bambini trascorrevano molte ore all’aperto, in natura, tra il gruppo dei pari e senza la supervisione troppo stringente dell’adulto. Questo tempo consentiva ai bambini di sviluppare la coordinazione motoria e il senso dello spazio, di sperimentare la noia e di allenare la fantasia nel tentativo di combatterla, imparando a inventare e reinventare giochi e attività, di scoprire i propri limiti e provare a superarli, di acquisire la consapevolezza del rischio e la capacità di sapersi gestire in rapporto ad esso, di assumersi delle responsabilità in assenza dell’adulto, di imparare a risolvere i conflitti tra pari in totale autonomia e soprattutto di migliorare la propria considerazione di sé stessi, un aspetto fondamentale alla base dello sviluppo dell’autostima e della capacità di saper affrontare positivamente la vita nell’ottica di una crescita continua. Tutte cose che non si possono imparare durante corsi sportivi in cui tempi, attività, relazioni e rischi sono comunque stabiliti dai grandi, tanto più che alla stessa età ogni bambino è diverso in quanto a sviluppo psicomotorio e i corsi al contrario tendono ad omologare attività e obiettivi. È chiaro, non intendo sminuire il valore e l’importanza dello sport ma dobbiamo essere chiari su quali sono i problemi di fondo perché solo così potremo aiutare i nostri piccoli nella faticosa e affascinante ricerca dell’autonomia e soprattutto, dell’autostima. Del resto le palestre nascono proprio per sopperire alla mancanza di movimento in natura generata dalla vita in ambiente urbano ed è inutile nascondersi che, nel caso dei bambini, potergli assicurare una “giusta” dose di movimento in assenza praticamente di qualunque tipo di rischio è estremamente comodo per i genitori, i quali possono a loro volta tenersi al riparo da ansie e paure e, in più, avere un’oretta libera mentre altri si occupano di loro. Ma i bambini hanno bisogno di vivere all’aperto, di saltare i fossi, di scavalcare muretti, di arrampicarsi sugli alberi, di cercare girini nei fiumi e lombrichi nel fango, di stare assieme ad altri bambini e di sviluppare le proprie competenze motorie e relazionali liberamente. Nessuno meglio di loro puó sapere infatti di cosa ha bisogno il loro corpo e cosa è pronto a fare in quel preciso momento dello sviluppo e noi adulti abbiamo il dovere di lasciargli fare tutto questo educandoli al rischio ed educando noi stessi a non essere vittime indifese di ansie e paure che tirannizzano tanto noi quanto loro.
Voi mi direte che è facile parlare ma ci sono i pericoli, il mondo non è più quello di una volta, i luoghi naturali sono lontani, il proprio bimbo non sarebbe in grado e via dicendo ma credetemi: basta un parco cittadino ed ogni bimbo è costitutivamente in grado di superare le proprie paure, di affrontare situazioni nuove e di agire in rapporto alle proprie capacità. Siamo noi adulti che non sappiamo più farlo e dobbiamo dunque rieducarci in questa direzione. Ve lo dico da educatrice ma soprattutto da madre di un bimbo piccolo: fate in modo che i vostri figli trascorrano piú tempo possibile in natura, imparate a gestire le vostre ansie e permettete loro di sperimentarsi liberamente. Se non lo farete il rischio non sarà solo quello legato all’obesità, ai problemi di salute che essa comporta e alla capacità di muoversi ma soprattutto quello di formare bambini ansiosi, paurosi, incapaci di gestire situazioni impreviste e di assumere decisioni e responsabilità, bambini privi di autostima e soprattutto costantemente bisognosi di voi. E voi non ci sarete sempre.

Il punto non è proteggerli dai pericoli ma insegnargli a farlo da soli. Il punto non è evitare loro ogni situazione spiacevole ma permettergli di acquisire le capacità psicofisiche per farvi fronte. Il punto non è essere sempre presenti ma dargli la certezza che ci saremo quando lo chiederanno. La natura in questo senso è la palestra più economica e più efficace che sia, tanto per loro quanto per noi, ma richiede da parte nostra un maggiore investimento e una maggiore fatica in termini di capacità di cambiamento (di pensiero, di abitudini) ed il punto è proprio questo: il problema non sono i pericoli, l’età, le contingenze. Il vero problema siamo noi e lo nostra reale volontà di affrontare le nostre paure e di educarli realmente a fare da soli e a non avere bisogno di noi.

6 risposte a "Allarme: cresce l’analfabetismo motorio"

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  1. Io mi domando come si sia arrivati a questo. Che cosa ci abbia spinto ad avere una visione paranoica nell’accudire i bambini. Forse un errore di percezione della pericolosità del mondo che ci circonda? Davvero siamo messi peggio rispetto a cento anni fa? Io non credo.

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    1. Credo che ci siano tanti fattori che ci hanno portato fino a qui, tra questi la sensazione di insicurezza percepita a causa di un certo modo di fare informazione, luoghi di vita sempre più inadatti alle necessità dei bambini, famiglie sempre più nucleari e sempre più isolate e in generale una mentalità dilagante che parte dal mondo del lavoro e coinvolge tutto il resto tesa ad evitare ogni tipo di rischio o di problema. Oggi si agisce costantemente in modo da evitare che i problemi si creino e questo ci rende sempre più incapaci di affrontarli. In più se prima le condizioni di vita in campagna ponevano ai genitori problemi di ordine quantitativo e questo li spingeva a rendere i figli autonomi e produttivi nel più breve tempo possibile, il crescente benessere ha fatto in modo che oggi i problemi siano di ordine qualitativo e non si richiede più ai figli di contribuire fattivamente al mantenimento della famiglia. Questo genera una visione distorta che li fa percepire sempre piccoli, indifesi… Inetti. È chiaro, sono alcune delle cause che possono essere rintracciato ma il punto è: come ne usciamo? Come possiamo recuperare le buone pratiche genitoriali di un tempo e riportarle in una quotidianità tanto diversa? Qual è il punto di equilibrio tra il prima e il dopo?

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  2. Da questa riflessione io percepisco una direzione: l’adulto come destinatario di formazione, prima di tutto alla motricità. Al resto, come si dice dalle mie parti, ci si va dietro…

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  3. Sicuramente. Mi sono convinta da molti anni che, soprattutto se si parla di educazione ambientale, bisognerebbe concentrare ogni sforzo e ogni risorsa possibile su coloro che sono adulti oggi e questo soprattutto per due motivi: il primo è che possiamo educare le nuove generazioni solo con l’esempio, non certo con i proclami e solo se sappiamo incarnare quanto andiamo predicando. Il secondo è che scaricare la responsabilità dell’ambiente su chi oggi non ha colpe ma erediterà le nostre è ipocrita oltre che ingiusto e inutile. Quando diciamo che l’amore e il senso di cura per l’ambiente devono partire dalle nuove generazioni non stiamo facendo altro che lavarcene le mani, magari mettendoci la coscienza a posto con quei pochi progetti e quelle poche risorse che mettiamo in campo per fare un pó di educazione ambientale a scuola. Ma l’educare non può essere disgiunto dal saper essere noi per primi educati e in questo senso chi intende educare deve innanzitutto sapersi auto educare. Se l’ambiente, la sua cura, la capacità di vivere sostenibilente non diventano una priorità per noi adulti di oggi difficilmente lo diventeranno per quelli di domani ed essi si troveranno a dover agire per emergenza e questo vale anche per gli aspetti più strettamente legati alla motricità. Dunque si, c’è bisogno di educazione e formazione in primo luogo per gli adulti, per i genitori, per gli insegnanti, per tutti coloro che oggi dovrebbero essere comunità educate ma fanno fatica a mettere a fuoco le priorità.

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